Una battaglia di civiltà: "Porte aperte" di Leonardo Sciascia

Pubblicato il da vocelibera2011

http://photo.goodreads.com/books/1320072937l/159536.jpgNel 1987 Leonardo Sciascia (Racalmuto, 1921 – Palermo, 1989) pubblicò un romanzo intitolato Porte aperte, con il quale tornava a parlare dell'epoca fascista, come nella Scomparsa di Majorana e in alcuni racconti. Il titolo allude al motto della propaganda secondo il quale la sicurezza garantita dal regime permetteva di dormire con le «porte aperte».


Siamo nel 1937 a Palermo. Un uomo ha ucciso la propria moglie, l'impiegato che lo aveva sostituito sul posto di lavoro, il capufficio che lo aveva licenziato. Il regime, che ha appena reintrodotto la pena di morte, preme affinché l'omicida sia condannato in maniera esemplare. Solo un giudice a latere, uomo di grande cultura e profondo senso morale, si oppone alla pena capitale.


Il romanzo, ispirato ad una vicenda realmente accaduta, è un'appassionata affermazione di civiltà e di dignità contro la barbarie della pena di morte (e del fascismo).

Non è uno scritto semplice, anzi è forse una delle opere più difficili di Sciascia, densa com'è di erudizione e di riflessioni filosofiche. Dispiace doverlo dire, ma questa è sicuramente una pecca, perché un messaggio come quello di Porte aperte dovrebbe avere un'espressione accessibile ad un pubblico medio.

 

Il dialogo tra il giudice e il giurato con il quale si è creata una particolare intesa resta comunque un capolavoro: stanno l'uno di fronte all'altro due uomini colti, indignati e spaventati, ma non disposti all'estremo compromesso con il regime e con la sua ideologia violenta e mistificatrice.

La conclusione della storia, vista di scorcio, sarà l'unica possibile, in quel contesto e in quegli anni; tuttavia il messaggio di civiltà rimane, anche se avvolto dal pessimismo che quei tempi provocavano e che forse anche un'epoca più recente può suscitare.


Bisogna continuare a raccogliere l'eredità del messaggio di Sciascia e a rigettare tutti i rigurgiti di autoritarismo che purtroppo il nostro tempo ancora produce, in una battaglia civile e non violenta per l'affermazione di un'umanità veramente degna di questo nome.



(Il giudice discute col procuratore, n.d.r.) «[...] Io ho salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria...». «Non accadrà: e lei lo sa quanto me».

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